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Luigi Prestinenza Puglisi
Giorgini era un personaggio interessante, straordinario e dimenticato dalla cultura ufficiale. La sua opera meritava una lettura e una riflessione. Le sue idee, hanno anticipato tesi che oggi vanno per la maggiore. Oltre a Vittorio Giorgini andrebbe rivalutato Luigi Pellegrin. Ambedue avevano un’idea della forma singolare; non frutto dell’estro, ma modo di organizzare razionalmente la realtà. È un insegnamento nato dall’osservazione della natura, che è alla base del loro forte organicismo.
È’ un tema molto interessante e moderno, che punta all’equazione: forma uguale struttura uguale informazione uguale significato e tante altre cose.
Vittorio Giorgini è vittima della cultura tafuriana. Di un modo estremamente formalista e tradizionalista di vedere il mondo che ha rimosso decine di grandi personaggi. Per privilegiare invece mediocri quali Gregotti, Purini, Gae Aulenti. Quella Gae Aulenti che a mio parere non vale un decimo di Vittorio Giorgini. Di lui si sapeva poco e, peggio, non si riusciva a salvaguardarne le architetture. Solo grazie ad una campagna pressante sulla presS/Tletter, la DARC gli diede un qualche peloso riconoscimento.
Tratto da “0045 [MONDOBLOG] Attraverso mail: Luigi Prestinenza Puglisi”, a cura di Salvatore D’Agostino, martedì 28 giugno 2011
Paolo Riani

A Baratti ci venni la prima volta 10 anni fa. Allora non c’era niente oltre ai pini e alla presenza di Populonia, più immaginaria che reale, sfuocata com’è, sul promontorio. Giorgini lo conobbi dopo. Diventammo amici e tornammo insieme qualche volta a Baratti. Mangiavamo con Demos, uno del posto che aveva una trattoria e parlavamo di pesca, di gente di lì e di altre cose. Giorgini diceva che qualcosa di nuovo in architettura ci doveva pur essere e parlava di forme che si svolgono libere nello spazio secondo leggi ancora sconosciute. La casa la costruì più tardi, con entusiasmo. E con trepidazione, anche. Non c’erano precedenti su cui basarsi, e che avrebbero potuto confortare. Costò poco. Ci lavorò anche lui, materialmente con le mani, a tendere la rete, e a spruzzare il cemento. Non ci furono imprevisti o difficoltà. Adesso la casa emerge dalla vegetazione con naturalezza, inserita biologicamente nella natura come una roccia scavata dal vento del mare. O come un animale preistorico, enorme e buono. O come se ci fosse sempre stata lì sul promontorio.
Una casa scultura, in «Ville e Giardini», 32 (agosto 1970), p. 3.
Haresh Lalvani
I progetti pionieristici di Giorgini emergeranno come una guida e continueranno a ispirarci attraverso la loro esemplare sintesi di arte e scienza architettonica attuata nel vigoroso lavoro di un visionario coraggioso.
Dalla scuola di architettura biomorfica a quella morfologica: considerazioni sul lavoro di Vittorio Giorgini, in Spaziologia. La morfologia delle scienze naturali nella progettazione, L’Arca Edizioni, Bergamo 1995, p. 254.
Glauco Gresleri
Vittorio Giorgini […] una figura di altezza progettuale inusitata e in grado di allinearsi ai livelli più alti della disciplina internazionale. […] Nel filone delle strutture a guscio e a membrana che si rivoltano su se stesse, anticipando di un quarto di secolo ciò che farà Ghery a Bilbao o a New York, Giorgini persegue e propone la spazialità architettonica in senso dinamico e libero, fornendo all’esperienza immaginativa progettuale un’accelerazione di incredibile forza.
La natura come modello, in «Parametro», 237 (gennaio-febbraio 2002), p. 2.
John M. Johansen

Vittorio ha, fra le altre qualità, una rimarcabile abilità come insegnante: è instancabile, esigente, accurato, chiaro e, come si deduce dalle reazioni ormai decennali degli studenti, ispiratore. […] Così come è uno scienziato, uno studioso della geometria, un ingegnere, un architetto e un insegnante, Vittorio, per quanto possa opporsi a questa mia idea, è chiaramente un artista e un romantico. L’impatto visivo dei suoi progetti è immediato e memorabile. Le sue opere sono, ognuna a proprio modo, semplicemente belle. Quando una volta ho chiesto a Vittorio perché fosse così coinvolto nel tormentoso lavoro di ricerca, analisi, verifica e nello sviluppo progettuale dei suoi lavori, mi ha risposto sinceramente: “Perché ci tengo così tanto al senso dell’immagine”. Questo davvero è un talento raro.
Prefazione, in Spaziologia. La morfologia delle scienze naturali nella progettazione, prefazione, L’Arca Edizioni, Bergamo 1995, p. 183.
Lillian Kiesler
Jo whom it may concern.
It is my deep conviction that my Vittorio Giorgini should be granted a residence permit. My Giorgini, a distinguished architect and educator, has been engaged in working with a visionary concept for a new method of building. Given the possibility to continue his research here, i believe it would expand the concept of structure and new technology. He is a bullient educator and humanist giving to his students a dynamist attitude touvards the arts in our changing developing world. My Vittorio Giorgini has been giving freely to our cultural life. I deeply hope he can become a resident here. Sincerely, Lillian Kiesler Mrs Frederick Kielser.
Lettera di presentazione di Lilian Kiesler per agevolare il permesso di soggiorno statunitense di Vittorio Giorgini, primi anni Settanta.
Carlo Cresti
Conosco Vittorio Giorgini da più di quarant’anni, cioè da quando eravamo giovani ‘assistenti volontari’ nella facoltà di Architettura fiorentina e partecipammo entrambi, su invito, alla Prima Triennale Itinerante di Architettura Italiana Contemporanea, insieme a Portoghesi, Gregotti, Vigano, Pagliara, Savioli, Ricci, Dardi, Castiglioni, Dezzi Bardeschi, D’Olivo e Cannella. Da allora, da quando Giorgini esordiva con ‘l’informale’ allestimento della galleria d’arte Quadrante e realizzava, qualche anno più tardi, l’audace prototipo in cemento isoelastico di Villa Saldarini a Baratti, ho sempre apprezzato la sua costanza di architetto interessato alla sperimentazione e ho ammirato l’impeto e la caparbietà con i quali ha esposto e difeso le proprie idee spesso scomode e quasi costantemente controcorrente. […] Giorgini non ha mai indugiato in compiacimenti per revivals di qualsiasi marca, considerando le ‘memorie’ come espressioni di sostanziale pessimismo, di un consumo della storia non creativo, ma soltanto imitativo di forme e modelli del passato.
Presentazione, in Vittorio Giorgini. La natura come modello, a cura di M. Del Francia, A. Pontecorboli Editore, Firenze 2000, pp. 6-7.
Frédéric Migayrou
Cher Monsieur,
C’est avec le plus grand plaisir que j’ai fait votre connaissance l’autre jour et il est toujours surprenant de rencontrer directament la personne que vous avez approchée au travers de documents imprimés et d’écrits.Tout l’intérét que je portais à votre œuvre et à votre position unique dans le contexte italien s’est renforcé à la lecture des documents que vous m’avez soumis. Indépendamment de vos premiérs réalisations qui s’inscriront historiquement, l’aspect théorique de vos recherches topologiques pour une « spatiologie » m’a marqué car il trouve aujourd’hui une nouvelle actualité.
Tratto dalla lettera di F.M., Conservateur en chef Services Architecture & Design del Centre Pompidou di Parigi, dopo un incontro avuto con Giorgini.
Claudio Cantella
Esaminare l’opera progettuale di Vittorio Giorgini è senza dubbio un’occasione da non perdere per parlare della modernità non soltanto dell’architettura ma di tutto il modo di operare per un’urbanistica tesa a modificare in positivo la vita ormai compromessa di molte città. […] Vittorio Giorgini si colloca dunque nel panorama architettonico internazionale come una figura sicuramente anomala ed interessante con una progettualità dalle connotazioni fortemente incisive.
Ad un passo dall’utopia. L’opera progettuale di Vittorio Giorgini, in «Professione Architetto», 3 (maggio-giugno 1988), pp.23-24.
Aldo Castellano
Vittorio Giorgini è una di quelle rare figure di architetti ricercatori di tradizione prerinascimentale che ancora sopravvivono (seppure con estreme difficoltà) nel panorama internazionale, spesso dominato da estremismi formalistici o da un professionalismo, anche se di alta qualità, appiattito sulla cultura dominante della tradizione.
Il Walking Tall per New York, in «L’Arca», 4 (aprile 1987), p.77.
Massimo Giovannini
Se dovessi definire Vittorio Giorgini lo definirei un architetto contro. È contro tutta una serie di cose che sono assodate. Contro tutta una serie di cose che per abitudine siamo portati a pensare inamovibili. Contro tutti i concetti legati all’architettura che sono bloccati attraverso una consuetudine. Vittorio è una persona “contro” in quanto con grandissima lucidità si pone dei problemi, guardando con una certa distanza alla risoluzione di essi in termini tradizionali. Tutta la sua vita è caratterizzata da questo suo essere contro qualche cosa ma a favore di una liberalizzazione del pensiero dell’architetto.
Dalla conferenza di Reggio Calabria, Vittorio Giorgini. La natura come modello, 11 maggio 2005.
Maurizio Vitta
Protagonista della ricerca che Vittorio Giorgini conduce da tempo – e comunque fin dall’inizio della sua lunga attività di architetto, studioso e docente – è lo spazio. Ma lo spazio nel quale egli disegna le sue figurazioni architettoniche o concettuali non è quello fisico della geometria o quello funzionale dell’architettura. È invece uno spazio storico, simbolico, antropologico: per un verso è il ‘luogo’ aristotelico, ovvero ‘il primo limite immobile che abbraccia il corpo’; per un verso è la pura spazialità, che per Heidegger è definita dall’esserci stesso del soggetto nel mondo. Il primo risultato di questa concezione è stato per Giorgini il superamento dello spazio euclideo… L’idea di base era dunque quella di ripensare il concetto stesso di natura per liberarlo dalle scorie di una vicenda storica che l’aveva ingabbiato in un ambiente arido e statico, e riportarlo alla sua fecondità originaria, fatta di diversità e di pluralità delle soluzioni tecniche, formali, linguistiche. La visione di Giorgini è stata dunque fin dall’inizio liberatoria, utopistica, ma senza compiacimenti poetici. Al contrario, tendeva a basarsi su una razionalità alla quale indicava semplicemente nuovi orizzonti. […] Ha fatto vibrare corde più profonde, giacché ha dato vita a una visione dell’architettura che si ramifica a tal punto nell’ambiente, nei modelli di esistenza, nelle strutture sociali e culturali da mettere capo a una vera e propria ideologia architettonica.
Agora. Dreams and Visions. Vittorio Giorgini, in «L’Arca», 214 (maggio 2006), p.34.
Emilio Villa
Vittorio Giorgini è un profeta, precoce e fantomatico. La sua opera, iniziatica, di modulatore (non diciamo di progettatore che è termine noto all’architettura vigente, morente) è tesa verso estensioni sintonizzabili sull’eone maggiore, sulla massima promessa. Roma, novembre 1968.
Per una architettura futura, in Giorgini. Ipotesi per un habitat più naturale, catalogo della mostra (Ferrara, Palazzo dei Diamanti, 7-27 dicembre 1968), Roma 1968.
Robert Sebastian Matta
Il colossatore, che fa venir fuori grandi cose.
Dedica a Vittorio Giorgini, catalogo della mostra antologica su Matta, (Bologna, maggio 1963).
Giuseppe Furlanis
A Vittorio Giorgini va riconosciuto un impegno sociale e culturale costante e di particolare rilievo. Un impegno il suo che, espresso in diverse forme e in diversi ambiti, ha messo sempre in evidenza il rischio di un declino culturale; un declino che è generato dal venir meno di quel approccio razionale e scientifico ai problemi che è stato ed è alla base dello sviluppo del sapere. Sebbene sia pienamente consapevole della necessità di superare una concezione totalizzante del sapere scientifico - concezione che è stata alla base del "pensiero metafisico" - Giorgini individua tuttora il metodo scientifico come la forma più idonea per lo sviluppo di una coscienza critica. In tutto il suo lavoro ha sempre perseguito lo sviluppo di un pensiero libero. Un impegno civile, il suo, che si configura come un esempio per docenti e intellettuali. La sua attitudine ad inserire i problemi sempre all'interno di un quadro generale, ci permette di comprendere i fenomeni e gli stessi problemi nella loro complessità, evitando letture schematiche e riduttive.
Estratto dalla presentazione del libro “Le religioni plagiano”, Firenze, Giubbe Rosse, 24 maggio 2008
Aurelio C. (Ceccarelli)

Tra me e Vittorio c’è una grande amicizia. […] Andai con Leonardo Savioli a casa dell’architetto Leonardo Ricci e lì trovai questo giovanotto sportivo che stava zitto tra i tre: si parlava di una mostra itinerante di architettura toscana. Dopo un po’, annoiati, uscimmo insieme dal soffoco di quella conversazione e ci mettemmo a chiacchierare facendo su e giù nella piazzetta che c’era sotto la casa del Ricci e facemmo l’alba. Ma non andammo a dormire: salimmo su un auto e continuando a parlare scavalcammo l’Appennino per raggiungere Asìa, dove io abitavo. Fu una stagione fervida di scoperte (lui di me – io di lui) e scoprimmo l’amicizia, quella dell’adolescenza, dello slancio verso la vita dell’altro, della scoperta dei nuovi sentimenti del dare tutto a questo fenomeno che ci coinvolgeva; avevo, avevamo, scoperto lo specchio in cui si rifletteva ogni aspirazione dell’uno e dell’altro. Ero in un momento fortunato e avevo soldi, così che […] per stampare il catalogo della mostra itinerante di cui sopra, venne da me Savioli a chiedermi se tante volte volevo partecipare a questa trovata… Sì, dissi, però dovete far partecipare anche il Giorgini… Così fu, ma mi alienai il Ricci e altri che non ho più incontrato.
Vittorio volle andare in ‘esilio’ negli USA. Ci siamo rivisti dopo molti anni poiché una visita di poche ore non poterono bastare a colmare il vuoto biografico che si era creato. Anche ora che siamo tornati a vivere ‘a portata di mano’, ci vediamo poco e ci seguiamo col telefono. Ma il suo tardivo successo mi colma di gioia e di soddisfazione, me che ho assistito ‘all’avventura’ di Baratti, che l’ho visto disegnare, modellare, riflettere e guardare le nuvole ispiratrici…
Tanti anni fuggiti indietro, ma noi saldi su una roccia restiamo fermi, con la destra nella destra amici; quello che ci pesa un po’ è la nostra vecchiaia che è una tremenda realtà. Ma ce ne freghiamo sapendo che lasceremo il mondo migliore di come lo abbiamo trovato.
Estratto di una lettera di Aurelio a Marco Del Francia, 25 settembre 2006.
Lapo Binazzi
Vittorio Giorgini, occhiceruleo, l’ho conosciuto attraverso Leonardo Ricci quando ero studente di architettura. Lo trovai impegnato su alcuni modelli al vero, di sue architetture 'organiche', nella sua casa di Impruneta. Poi ci siamo incontrati altre volte a mostre di architettura e siamo presenti insieme nel catalogo della collezione del FRAC di Orléans di architetture sperimentali. L'ho sempre considerato un genio buono e un amico collega di grande umanità.
Lapo Binazzi (UFO)
Firenze, 1 marzo 2010
Estratto di una lettera a Paola Bortolotti
Antonella Greco
“Al lupicanto! Incanto! Puttana miseria che architettura lupicantica.”, scriveva Emilio Villa nel 1968, e poi ancora “si Vittorio è un profeta, precoce e fantomatico”. E se lo diceva lui, Villa, lo scopritore di Burri e della maggior parte dell’avanguardia italiana di quegli anni, bisogna crederci.
Io non l’ho conosciuto Vittorio. L’ho però sfiorato in una forma di tangenza. Con Massimo (e qui era tutta una storia di New York negli anni Settanta di incantamenti, di Village e di Pratt Institute nella neve) e con tutta la troupe di un documentario su Leonardo Ricci che stiamo concludendo, da cui era scaturita una bella intervista di Mariaclara Ghia “sui massimi sistemi” come direbbe Giorgini. ( E qui tutta la storia era su Wright, l’organico, l’accademia e Michelucci che abbandona Firenze e Leonardo “che entrava come una ventata, con quei capelli magnifici, con un fascino incredibile” ma che anche sotto sotto, insieme a Savioli, formava un duo “di piccoli dittatori” che un pò bloccavano la ricerca e che quelle cose che Vittorio voleva, poi era meglio che non osasse farle…).
Che strana questa cosa di Wright, rimosso, rivisitato, inalato da tutta una scuola fiorentina sempre stata radical all’avanguardia eretica e contenta di esserlo. Qualcosa forse era dovuto alla antica prima mostra del “profeta di Taliesin” a Firenze agli inizi degli anni Cinquanta curata da Ragghianti e Zevi. Certo è che l’utopia e l’eresia allignavano parecchio, tra le chiese/tende e le chiese/ elefante di Michelucci e le stalattiti abitabili e i dischi volanti di Ricci. Le straordinarie strutture di Giorgini soniche e biomorfiche, memorie di endless houses volutamente al di fuori dell’architettura proprio come adesso. Guardando ora i modelli di reti e intrecci biomorfiche realizzate al computer –era lunedì al più tardi al Beaubourg- uno pensa a quella straordinaria ricerca di pionieri che guardando Finsterlin costruivano quasi con le mani il gesso e la malta case impossibili. Ai pionieri: Kiesler, a Soleri, a Bloc. Guardo a Giorgini, allo straordinario progetto Liberty e penso come dovesse sentirsi ora di fronte a tutte le “sconvolgenti novità”, blurring, topologia, blobs e simili, lui che le aveva già intuite inventate e realizzate negli anni Settanta a Parksville, America. Lui che era già al di là negli Ideogrammi per New York e con quegli scenari urbani futuribili che non erano solo forma, ma l’intuizione di un’utopia, con tutte le implicazioni socio culturali che ci avrebbe preservato, forse-ancora la sua intervista- dalla attuale sconsolante distopia.
Antonella greco. Al lupincanto, in PresSTletter n. 06/2010
Marcello Sèstito

La perdita di Vittorio Giorgini ci addolora essendo privati di una delle personalità più controverse della recente e passata storia dell’architettura italiana. La sua dirompente laicità e il suo anticlericalismo sicuramento gli vieteranno l’accesso nel regno dei cieli di un dio a cui non ha mai creduto, ma sicuramente sarà accolto nel regno dell’intelligenza e nella materia che tutto informa.
Uomo dalle mille sfaccettature ha legato assieme in una sublime razionalità vocazioni scientifiche a tentazioni formali che mai si disgiungevano dai raffinati quanto controllati percorsi compositivi.
Un disegno della sua infanzia, riproducente una chiocciola come casa, raffigura la parabola della sua condizione di architetto che ritrova, negli anni a venire, conferma nella realizzazione di casa Saldarini a Baratti: la Balena in rete metallica, avvolgente nelle sue spire e contro spire il cui solaio di soli quattro centimetri la pone in condizione d’avanguardia. Se solo l’attenzione al suo lavoro fosse stata tempestiva come era dovere della cronaca e della storia, ci saremmo trovati un maestro con largo anticipo sul destino dell’architettura contemporanea in Italia. Pur non molti gli esegeti, dagli amici più intimi come Marco Del Francia, a Lara Vinca Masini, Luigi Prestineza Puglisi, Maurizio Vitta, Massimo Giovannini, e chi scrive, che lo hanno più volte sostenuto nelle sue tesi e nel suo percorso, scarsa è stata l’attenzione verso questo protagonista dal carattere fermo e tenero, dirompente e pure mite, euforico, eppure calmo, austero e pensoso. Che dipana la sua ricerca e le sue architetture come prodotte da una manipolazione incessante di quella natura elevata a modello e introiettata in ogni fibra in ogni nervo, in ogni spira, in ogni pelle del costruire. In Vittorio Giorgini coesistevano più necessità, quella di non allontanarsi mai dalla materialità delle cose fossero le più incomprensibili sotto il profilo evolutivo; una fiducia nelle leggi delle geometrie intese non nella loro trascendenza platonica ma come solidi-solidi impossibilitati a sfumare nelle nebbie interpretative e pertanto capaci di dare consistenza alla vita; l’interesse sviscerato per ciò che esiste, non come dono supremo di un ente superiore, ma come consistenza suggeritrice di curiosità, come materia pronta alla malleabilità, alla manipolazione incessante dell’archetipo. Per questo l’Architettura ha finito con l’essere la sua “ragione” di vita, perché in essa vi soggiornavano per il nostro quanto di più misterioso potesse sperare, ma un mistero alla Bobbio, antimistico.
L’università italiana se lo fece scappare facendolo emigrare negli Stati Uniti, né il suo rientro fu accolto con gli onori che gli competevano. Lascia un notevole quantitativo di progetti e opere alcune delle quali realizzate che ci serviranno a meglio comprendere l’attuale dibattito sull’architettura destinando la sua opera a letture incrociate, ed a un futuro in cui quando le nebbie saranno diradate se ne riscoprirà l’importanza in tutto il suo vigore.
Stavamo curando con Marco Del Francia, suo discepolo nel senso più autentico del termine, la mostra personale che dovrà svolgersi a Reggio Calabria in occasione della Prima Biennale di Architettura e Arte del Mediterraneo, ne era molto lusingato e felice nel vedere l’intero suo materiale riorganizzato in catalogo e pronto ad essere illustrato in una mostra in suo onore. Ci ha lasciati troppo presto per poterne godere appieno, resta a noi tutti l’amaro in bocca e queste parole nell’intervista che mi ha concesso alla fine di quello che credo sia stato l’ultimo colloquio avuto a Firenze, 11 Settembre 2009:
S. C’è qualcosa Vittorio che ti va di lasciare come testimonianza ad un giovane che si appresta all’architettura, un consiglio da saggio o un avvertimento o un modo di procedere.
G. Il modo di procedere è lo studio senza ideologia; quindi consiglio la distruzione delle ideologie, che hanno distrutto la vita del pianeta forse da decine di migliaia di anni – sicuramente negli ultimi 10.000 che conosciamo un po’ di più. L’assenza di ideologia, che crea altrimenti presunzione. E l’osservazione di cose semplici che non sono quelle che facciamo noi ma sono quelle che ha fatto la natura, che sono semplici ma complicatissime. Oggi la scienza ha fatto grandi passi avanti quindi non dobbiamo distaccarci dallo studio della scienza e non cercare di fare la cosa che piace, la cosa originale per farsi riconoscere, come l’architetto Ghery. Lui cerca di fare quello che i francesi dicono Pâté de bourgeois, quello di scioccare, ma la cosa non è nuova. Impressionare gli altri non porta a niente di buono. La mia regola è questa: occupati del lavoro, pensa al lavoro e a nessun altra cosa, non a quello che ti porta, ma a quello che puoi fare e cerca che sia un servizio.Io dico che sono un ottimista, perché penso che quello che credo sia tutto sbagliato: questo è il mio ottimismo.
Marcello Sèstito. Vittorio Giorgini nella Spaziologia, in PresSTletter n. 06/2010
Marco Del Francia

La personalità di Vittorio era fortissima, carica di un carisma cui nessuno poteva rimanere indifferente. Impossibile non subirne il fascino.
Ogni minuto, ora o giornata che fosse, trascorsa assieme - passeggiando tra le strette e antiche vie di una Firenze che in pochi oramai conoscono, o pasteggiando pecorino e prosciutto al tavolo in legno di casa sua, o ancora nuotando come fino allo scorso anno nel “suo” golfo di Baratti - era occasione per spunti di riflessione e di apprendimento. Il suo spirito di osservazione era impressionante, così come la sua cultura. Prodigo di aneddoti, trascorrerci del tempo assieme era come approvvigionarsi a una fonte inesauribile di ricchezza. Generoso e corretto, ogni qualvolta un suo progetto doveva essere pubblicato, si preoccupava all’inverosimile che fossero citate tutte le persone che lo avevano aiutato, sia pure chi aveva passato di mano semplicemente la colla per il plastico.
Pur ipovedente, riusciva a cogliere particolari che ai più sfuggono per abitudine. Semicieco, ancora sorprendeva il suo forte senso dello spazio e delle proporzioni. Solo poche settimane fa, in una rigida domenica d’inverno, era capace di cogliere gli sbagli progettuali di un edificio di Jean Nouvel a Colle Val D’Elsa. Lo guardavo toccare le superfici con le mani, con i passi misurare le distanze, dimensionare lo sbarco degli scalini dal piano interrato, le aperture sul portico, l’attacco con l’edificio contiguo, gli spazi di risulta, la circolazione a terra, la larghezza del marciapiede: “mancano gli spazi di transizione, qui è troppo stretto, la gente sbatte, qui ci piove…”. E poi andare pochi metri più in là, alla banca di Michelucci, trovare anche lì dei piccoli errori, ma riconoscere quanto ancora è contemporaneo quell’edificio, quanti valori spaziali ancora racchiude, “più dell’oggetto di design” di Nouvel.
La sua telefonata quotidiana a colazione, o a sera, era come un rito senza il quale la giornata sembrava perdere di interesse. Ma anche in queste cose e nei gesti quotidiani trovava il modo di non renderli scontati, ne banali. Un pomeriggio, dopo alcuni ripetuti tentativi a vuoto di telefonarmi (mi era rimasto in modalità silenzioso il cellulare), trovai sul display il seguente sms (scritto con l’aiuto della dolcissima Caroline): “disponibilizzando squillizzami”. Aveva un’inventiva senza pari e una ironia disarmante, a volte contagiosa a volte tagliente.
Vittorio non c’è più, ma il suo vissuto umano e professionale è talmente forte, importante e pregnante che non può – non deve – essere disperso. Mentre il primo è un tesoro che chi ha avuto la fortuna di conoscerlo potrà custodire dentro di se, il secondo (le sue opere, il suo lavoro), è un patrimonio che diventa obbligo morale valorizzare e trasmettere alla comunità.
Disponibilizzando squillizzami, in PresSTletter n. 06/2010
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